06/10/2022 Teatro

FOCUS IN-BOX

Il Teatro Biblioteca Quarticciolo è partner di In-Box – Rete di sostegno del teatro emergente italiano,  rete di teatri, festival e soggetti istituzionali che seleziona e promuove alcune delle esperienze produttive più interessanti della scena emergente italiana.

La Classe di Fabiana Iacozzilli, vincitore In-Box 2019, apre la rassegna dedicata al teatro emergente italiano.

al termine dello spettacolo:
IN-BOX 2023 – presentazione del bando in uscita per artiste/i e compagnie
DOMINIO PUBBLICO – presentazione progetto di audience development e community engagement under 25
OPEN CALL – l’ASSEMBLEA – presentazione laboratorio teatro partecipato per donne a cura di Rita Maffei

6 ottobre ore 21.00 | Teatro

LA CLASSE
un docupuppets per marionette e uomini
uno spettacolo di Fabiana Iacozzilli | Cranpi

collaborazione alla drammaturgia Marta Meneghetti  Giada Parlanti   Emanuele Silvestri
collaborazione artistica Lorenzo Letizia  Tiziana Tomasulo   Lafabbrica
performer Michela Aiello, Andrei Balan, Antonia D’Amore, Francesco Meloni, Marta Meneghetti
scene e marionette Fiammetta Mandich
luci Raffaella Vitiello
suono Hubert Westkemper
fonico Jacopo Ruben Dell’Abate
assistenti alla regia Francesco Meloni, Silvia Corona, Arianna Cremona 
foto di scena Tiziana Tomasulo, Valeria Tomasulo
consulenza Piergiorgio Solvi
un ringraziamento a Giorgio Testa
un ringraziamento speciale ai compagni di classe
produzione Cranpi, La Fabbrica dell’Attore-Teatro Vascello Centro di Produzione Teatrale, Carrozzerie n.o.t   
con il contributo di MiC – Ministero della Cultura
con il supporto di Residenza IDRA e Teatro Cantiere Florida/Elsinor 
nell’ambito del progetto CURA 2018 e di Nuovo Cinema Palazzo
con il sostegno di Periferie Artistiche Centro di Residenza Multidisciplinare della Regione Lazio

UBU 2019: Vincitore miglior progetto sonoro; nomination per miglior spettacolo di teatro, migliore regia, miglior scenografia
Vincitore Premio della critica ANCT 2019
Vincitore in-Box 2019
Selezione L’Italia dei Visionari – Kilowatt Festival 2019
Vincitore del bando di residenze interregionali CURA 2018
Finalista Premio Tuttoteatro.com alle arti sceniche Dante Cappelletti 2018
Finalista Teatri del Sacro 2017

Dal 1983 al 1988 io e altre trenta anime siamo stati gli alunni di una classe elementare in un istituto gestito da suore e che oggi ospita una casa per ferie. L’Istituto portava il nome di Suore di Carità. La nostra unica maestra, anche lei suora di carità, era Suor Lidia ed è morta più di vent’anni fa. Non è stato mai facile per me raccontare gli anni trascorsi in Istituto e la rigidità dell’educazione alla quale ci sottoponevano. A distanza di trent’anni ho deciso che avrei realizzato uno spettacolo a partire da quei ricordi e mi sono messa alla ricerca dei miei ex compagni, ritenendo indispensabile ricreare quella “comunità” con la quale ho condiviso l’esperienza in questione. Per iniziare a ricomporre i tasselli della “storia” li ho intervistati, ponendo loro domande molto semplici: “Com’era Suor Lidia?”; “Cosa ti ricordi di lei?”; “Ti ricordi cosa accadeva in classe?”; “Sei stato felice quando è morta?”

Parallelamente al lavoro sulle interviste Fiammetta Mandich ha realizzato dei fantocci/burattini a immagine dei miei compagni, per far interpretare loro gli episodi da noi vissuti tra i sei e i dieci anni di vita.

Da questa prima fase d’elaborazione dei materiali è emerso lo spettacolo: un docupuppets fatto da pupazzi e da uomini, ma anche un rito collettivo in bilico tra La Classe morta di Tadeusz Kantor e I cannibali di George Tabori, in cui l’adulto rilegge i ricordi di un’infanzia vissuta nella paura di buscarcele, interpretati da pupazzi in mano a un misterioso deus ex machina. Questi ricordi/pezzi di legno, bambini ridotti a marionette, fantocci di gioventù morte, impotenti e manipolati come oggetti, si muovono senza pathos su dei tavolacci che ricordano banchi di scuola, tavoli da macello o tavoli operatori di qualche esperimento che fu. Intorno silenzio. Solo rumori di matite che scrivono e di compagni che respirano. E poi rumori di gessi che si consumano scrivendo dettati alla lavagna. I genitori sono assenti. Non pervenuti. I genitori sono solo disegnati su un cadavere di lavagna ma poi ben presto cancellati. Nel silenzio dei loro passi, questi corpicini di legno  si muovono in un Mondo-Suor Lidia che pure Dio abbassa lo sguardo quando la vede.  Suor Lidia, unica presenza in carne ed ossa, figura viva di donna o uomo in mezzo a tutti questi oggetti, sfugge alla vista di pupazzi e pubblico. Ne possiamo sentire i passi, vedere le mani, cogliere nel buio qualche tratto, sentire l’odore del suo sigaro magari. Sentiamo che ci fa paura, che in fondo, nel fondo più fondo di ognuno di noi, pubblico pupazzo performer tecnico tavolo o compagno di classe, lei è generatrice di paura. 

In questa riflessione sul senso profondo del ricordo, in questa ricerca di pezzi di memorie andate, i miei compagni mi hanno aiutato a trovare una rotta e, infine, a comprendere la natura del lavoro. La Classe ha trovato il suo vero significato nel momento in cui ho rinunciato a quello che volevo raccontare in origine e mi sono messa in ascolto della materia che stavo indagando. A quel punto è emersa una domanda, la domanda intorno alla quale lo stesso spettacolo s’interroga: “che cosa ci facciamo con il dolore?”; “cosa ogni essere umano è in grado di diventare a partire dal proprio dolore?”  

Dal vuoto allora è emerso il ricordo di una scena in cui Suor Lidia mi affida la regia di una piccola scena all’interno della recita per la festa della mamma. E decide, forse, insieme a me la mia vocazione. Dunque La classe è uno spettacolo che voleva parlare di ABUSI DI POTERE ma parla di VOCAZIONI. La mia e la sua.  Uno spettacolo in cui tutti hanno ragione: sia quelli che dicono che nessuno guarisce dalla propria infanzia, sia quelli che dicono che tutto dipende da quello che ci facciamo con la nostra infanzia.


Rassegna Stampa

Il fantastico testo/spettacolo “La classe, un docupuppets per marionette e uomini” di Fabiana Iacozzilli con impianto e pupazzi ipnotici di Fiammetta Mandich, e con cinque tra manovratori e performer, cui ho assistito al Teatro Argot Studio, è appunto un raro lavoro che, esplorando i trascorsi adolescenziali tra i sei e i dieci anni dell’ideatrice-realizzatrice, collocabili tra 1983 e 1988, ha a sua volta rigenerato in me visioni, poesie, stupori e fascini di due opere estranee tra loro. Un tema intrinseco a questa fantasmatico diario di studi d’infanzia è, citato dalla stessa Iacozzilli, il tema della reviviscenza dello straordinario “La classe morta” di Tadeusz Kantor che con i sui banchi di scuola e con gessosi  protagonisti (lì, tra la vita e la morte) vidi nel 1978, al suo terzo anno, ma lo strepitoso teatro di figura di oggi mi riporta anche alle microscopiche sagome artigianali della leggendaria “Biancaneve” del Teatro del Carretto, miniatura narrativa e plastica di Cipriani-Gregori in cui mi imbattei 35 anni fa. 

Rodolfo di Giammarco, la Repubblica

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Nei primi momenti si ha l’impressione di un gioco perfetto e intelligente, che sembra muoversi, però, soltanto su un tracciato aneddotico, evocando un tempo in cui il termine scuola voleva anche indicare una disciplina a volte ai limiti del sadismo. E quindi si sorride compatendo quei bimbi con gli occhioni sgranati, incapaci persino di prendere a calci una palla ferma in un angolo durante una rara uscita in giardino, dove il ramo di un albero freme al vento, tenuto dal braccio di un animatore in un momento di straordinario virtuosismo. Col procedere dell’azione, scopriamo, però, che non è tutto qui, e il resto, credo, non vada svelato.

Antonio Audino, Il Sole 24 ORE

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Uno spettacolo, potremmo dire, unico nel panorama italiano, che lo collega alla sperimentazione da sempre in atto nel teatro di figura europeo.

Mario Bianchi, Krapp’s Last Post

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La scena, banchi che si muovono in coreografie, e una lavagna, con questi pupazzi dai grandi occhi spauriti (recentemente Premio ‘In-box’ a Siena) è già di per sé un capolavoro, così come i movimenti che gli attori-aiutanti in nero compiono danzando attorno a cartelle mignon, a penne micro, ad occhiali minuscoli. Aleggia, già dal titolo, la lezione kantoriana, soprattutto quando, sul finale, la stessa regista, discende dalla platea e con qualche tocco fa scattare brividi e commozione. Il pupazzo interagisce con l’uomo cercando in lui salvezza e conforto ai colpi, alle derisioni, chiede un po’ d’amore. ‘La classe’ è, giustamente, il vero eclatante caso teatrale dell’anno.

Tommaso Chimenti, recensito.net 

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Ne “La classe” messa in scena dalla regista romana c’è anche la necessità di fare i conti con quel passato: Iacozzilli ha pescato a piene mani nella propria biografia di bambina riesumando fatti e persone di trent’anni fa; ha aperto una piccola porta dietro la quale si celava un antro misterioso, quella stanza dell’infanzia e della memoria tanto cara proprio a Kantor. Si è immersa in una terza dimensione, infantile, riemergendo con una storia toccante e sincera, dando vita a uno spettacolo che già alla prima replica è un piccolo capolavoro; passaggio prezioso di una carriera più che decennale, meteora rara nel panorama teatrale nazionale e soprattutto romano per l’uso che fa del teatro di figura. 

Andrea Pocosgnich, teatroecritica.net

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È l’infanzia il repertorio sul quale si strutturano le categorie della nostra vita, dicevano. È questo il ruolo principe di questo lavoro: l’introspezione (lo sguardo dentro), la ricerca delle tracce impresse nella nostra stessa storia, che si rifiuta di licenziare un assillo, di insabbiarlo. E la ricerca, come sempre nelle opere di poesia, prima o poi deve rivolgersi verso quel seme che l’infanzia ha nutrito, senza scivolare nel determinismo ma con il desiderio di trovare una consolazione impossibile anche rispetto a ciò che siamo diventati. Una consolazione che ha il suo correlativo oggettivo nel commovente passo (chi sa resistere al tremolio di un pupazzo? ai suoi occhi brillanti quando inclina il capo? al sibilo triste di un fischietto un po’ sfiatato?) del «bambino handicappato», Antonio, preso di mira dalla suora e tenuto a debita distanza dai compagni, capace di guadagnarsi un solo abbraccio, quello del piccolo Spiderman gonfiabile che si srotola nella mani del performer, con un crepitio colloso. Sembra veramente di vedere un desiderio che prende forma.

Carlo Lei, klpteatro.it

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Sono piccoli pupazzi mossi in parte come nel Bunraku i protagonisti de “La classe”, gli animatori a vista con più ruoli, anche per dare aiuto, legami affettivi, con quelle creature che sono sintesi, stilizzazioni di persone reali, non a caso, si legge nella locandina “un ringraziamento speciale ai compagni di classe”, unico personaggio d’attore, ma appena intravista, le mani nervose, la maestra suora, motivo di terrore per i bambini. Di grande efficacia la scena mobile, le luci, tra molte stratificazioni emotive e raffinate ambiguità: l’ultima scena – cin il vento che spinge lontano, fisicamente e metaforicamente, quei pupazzi nei loro banchi – nasce da uno stimolo della suora che, di fronte al dubbio per la recita di fine anno, aveva detto alla bambina: “chiusi gli occhi e pensa alla meraviglia”. 

Valeria Ottolenghi, Gazzetta di Parma

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Lo spettacolo procede sul filo della rievocazione e della documentazione: si ascoltano voci fuori campo, interviste fatte dalla regista a quelli che si presumono essere ex compagni di scuola. Ricordano, ridono, stigmatizzano, elaborano o provano ancora a elaborare i traumi subiti nell’infanzia. In scena, intanto, si evocano e rivivono momenti topici della giornata in classe: i compiti, i pensierini, oppure la ricreazione, passata bloccati, immobili, in un angolo di un cortile a guardare, senza toccare, un pallone. Il terrore incombe su tutto e tutti, in un clima buio, asfissiante, in cui anche lo spettatore rimane immischiato, claustrofobicamente intrappolato. È una discesa negli abissi, cui fa da contraltare visivo il candore giocoso, netto, adamantino delle marionette. Dolorosissimo.

Andrea Porcheddu, glistatigenerali.com 

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Lo spazio viene agito da attori che manipolano con destrezza un pupazzesco personaggio, potenziale alter ego di Fabiana Iacozzilli, i suoi genitori e i compagni di classe, altri pupazzi. Il fantasma dei ricordi di Fabiana, che ha influito sulla sua inflessibilità in ambito professionale e sulla sua vocazione di regista che non perdona le minime sbavature, si chiama suor Lidia: la maestra di cui le voci off dei compagni di classe ricostruiscono l’immagine orribile, mentre ne rievocano gli approcci sempre al confine opaco dell’abuso fisico e psicologico. Difficile prendere le distanze da questo spettacolo. Ci riporta indietro nel tempo, ai perché delle nostre insicurezze, che spesso sono all’origine di un’infaticabile tenacia. La forma drammaturgica e il disegno luci, che avvolge personaggi e oggetti dentro bagliori di flebile intensità, riproducono l’affastellarsi di ricordi. Una memoria frammentaria, intercalata da rumori, mugugni, e, naturalmente, dal traumatico suono della campanella, grazie al notevole lavoro di Hubert Westkemper sull’ambiente sonoro. 

Renata Savo, Hystrio

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Manovrate a vista da mani sicure e premurose, sono le cinque marionette, create da Fiammetta Mandich, a raccontarci della cattiva Suor Lidia, la maestra violenta realmente esistita nella scuola elementare frequentata dalla regista, un vero e proprio incubo per intere generazioni di alunni passati per le sue maniere forti. In questa scatola scenica in cui tutto, ogni spostamento, ogni minimo gesto, ogni respiro trattenuto per lo stupore o per la paura, risuona grazie all’ambiente acustico di Hubert Westkemper e ai microfoni disseminati tra gli oggetti, la Iacozzilli ricostruisce su un doppio binario la trama di ricordi sepolti trent’anni prima. Mentre, infatti, vediamo i pupazzi-bambini soccombere, tremanti, agli insegnamenti maneschi della loro educatrice, le voci registrate dei compagni di classe intervistati dalla stessa artista ci restituiscono a sorpresa, tra rabbia e risate, verità sepolte dall’oblio.

Valentina De Simone, chetempochefa.repubblica.it


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