Lino Fiorito: “Arte, teatro e poesia mi hanno insegnato a essere onesto”

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«Se avessi un hangar! Quello che mi manca è lo spazio …». Lino Fiorito osa e fantastica. Dipinge, disegna acquarelli, crea ceramiche – distribuite nell’appartamento a ridosso di corso Vittorio Emanuele, tra libri di Klee, Lynch, Pasolini – inventa collage di giornali e pittura. Sta pure provando a fare sperimentazioni con i video ma guardandosi attorno capisce che la casa/atelier è, a volte, un limite. Non all’estro, s’intende: «Se fosse possibile, comprerei fogli di carta di quattro metri per fare nuove opere». È un artista. Uno scenografo che porta il suo talento e i suoi colori sui palcoscenici di teatro e i set di cinema. O dentro i concerti: come quando con i Bisca, alla Rote Fabrik di Zurigo, mitragliò il pubblico in sala con diapositive “sparate” da un proiettore tenuto in braccio. E chi di recente ha visto al Piccolo Bellini “Tango Glaciale Reloaded”, con la regia di Mario Martone, che debutterà ufficialmente al Ravenna Festival a luglio, ha compreso ancor più il suo verbo multiforme osservando i bozzetti rétro e i meccanismi visivi dell’allestimento.

Nato a Ferrara, «città di Michelangelo Antonioni e Cassani e de Pisis sì: ma io sono napoletano», sostiene. A Lino Fiorito va data fiducia. «È qui che ho scelto di assecondare le mie idee. Creare arte ti permette di allontanarti dal quotidiano. È un lusso, però lo paghi. Seriamente lo paghi. Gli artisti in genere non sono ricchi, almeno io non lo sono. E per parecchi dei miei amici vale altrettanto. Ma la persona normale ci collega a un certo stile di vita e immagina chissà quali fortune». Fiorito si racconta sorvegliato dal ricamo su tessuto afgano di “Piegarespiegare”, un’opera di Alighiero Boetti. Fino al 1998, in questo appartamento c’erano le cose sue e dei fratelli. Gianni, fotografo sui set di cinema; Pierpaolo, carabiniere a Siena. «Ho vissuto a New York fin dal 1989, facendo da assistente personale a Sandro Chia e lavorando in alcune gallerie. Venivo a Napoli solo per realizzare gli spettacoli».

Negli anni ‘80, “Tango glaciale” debuttò al teatro Nuovo. Ha fatto i conti con i suoi desideri creativi e con ciò che vuol fare ora?
«È stata prima di tutto un’emozione reale. Ho pianto. È scattato anche un orgoglio, 35 anni da allora. Ne avevo 25, nel 1982. Con il gruppo di Falso Movimento (poi evoluto in Teatri Uniti, cui il Napoli Teatro Festival a giugno dedica una mostra per il trentennale, ndr) riuscimmo a creare un progetto fondamentale. In seguito a quella esperienza capii di poter vivere di questo mestiere. Poter fare scenografie teatrali, lavorare ai film di un premio Oscar com’è Paolo Sorrentino: da “L’uomo in più” a “Il divo”. Prendemmo coscienza, nel tour seguente e dopo il sostegno critico, che potevamo vivere di quella vita. Sia a Napoli, sia altrove. Io non feci una scelta consapevole, ma emozionale e di contesto. Avevo vent’anni, Andrea Renzi ne aveva 17, Mario 22. Ci piaceva fare performance, installazioni, cercare altri linguaggi. Diventando autodidatti nei confronti di noi stessi. Tant’è vero che nessuno di noi ha studiato all’università. Personalmente, mi parcheggiai un po’ a Legge, evitando la leva. Poi poco prima del terremoto diventai obiettore di coscienza e fui coinvolto nella Mensa dei bambini proletari a Montesanto».

Quale ruolo aveva?
«Un po’ lavoravo direttamente con i bimbi. Ma la mensa, nel convento delle Cappuccinelle, aveva creato una sorta di archivio di notizie sociali. Leggevo giornali e ritagliavo articoli per comporre fascicoli su arte, teatro, cultura, politica a beneficio dei cittadini. Dopo il sisma, quel posto diventò un epicentro di aiuti solidali. Feci anche alcuni viaggi in roulotte per portare doni di necessità in Irpinia».

L’arte cosa le fa esprimere?
«La mia onestà. Più sei te stesso, meglio è. In questa logica, le collaborazioni ti insegnano anche senza volerlo. E scopri mondi paralleli, dalla poesia all’uso dei colori, ai dischi cult».

Prossimamente a cosa intende dedicarsi?
«Al video. Dovrei convincere prima qualcuno a fidarsi di me e a mettermi dietro la macchina da presa. Generalmente non sono uno che ha subito le idee chiare sui contenuti. Cerco di essere aperto il più possibile; dunque seguo un impulso intimo. Esempio: per un periodo ho camminato sempre portando con me una macchina fotografica. Tutt’ora ritaglio foto dai quotidiani e dai magazine e le “esaspero” per così dire con la pittura. Il mondo offre materiali, io li raccolgo, li trasformo e così vivono dentro di me».

La sua città d’origine le manca?
«Con la famiglia ci siamo trasferiti al Sud quando avevo quattro anni. Sono, tuttavia, orgoglioso e cosciente di essere di Ferrara. Mi creda, certi paesaggi ti restano addosso. Come quelli di Giulianova Lido, vicino Pescara, dove pure andammo a vivere. Le atmosfere nebbiose le amo: hanno fascino».

Napoli. Cosa le ha dato, cosa le ha tolto?
«Bisognerebbe prendere Napoli per quello che è: un porto. E tu vai via, torni. Vai via, torni. È la condizione migliore per viverla. Il suo problema è che per certi versi è un ghetto. Nel panorama italiano, molto più di Milano o Roma, è fondamentalmente una metropoli. Lo era già nel ‘500. È stata fondata prima di Roma. Però è chiusa in se stessa, è autoreferenziale».

Cioè vuole dire, che ha lo status ma non la mentalità di una metropoli?
«Esattamente. Perciò si dice che siamo provinciali. Ci comportiamo come fossimo in un ghetto. Guardiamo la cucina: è difficilissimo avere una cucina straniera degna. Qua la storia gastronomica della città schiaccia chiunque. Purtroppo, va detto, culturalmente ci sono intere porzioni della popolazione che non riescono a partecipare alla vita concreta della città, anche per questioni economiche».

Tornando al concetto di porto, lei lo vive costantemente. Ma a portarla lontano da Napoli non è l’acqua ma l’aria: sua moglie vive a Colonia e lei deve viaggiare spesso in aereo…
“A metà degli anni ‘70, ero ancora minorenne, andai via di casa, scelsi una comune a Torre del Greco. Poi partii per Roma, immaginando chissà quali prospettive. Invece vi restai sei mesi. E via a New York. Per me sono indispensabili i luoghi. Mia moglie lavora in una galleria d’arte, vado a Londra, Zurigo. D’estate riusciamo a vivere frangenti più quieti, insieme, scegliendo luoghi non usuali: Lima, Helsinki. Conoscere altre città e altri popoli ti fa capire la vita. Poi torni finalmente a Napoli, città fantastica. Il problema è che noi napoletani non sappiamo di averla».