28/09/2014

domenica 28 settembre ore 21

di e con Andrea Cosentino
regia Andrea Virgilio Franceschi
collaborazione alla regia Valentina Giacchetti

MArthe Live

Secondo testo dell’autore Andrea Cosentino, un chiaro esempio del suo telemomò, linguaggio teatrale di sua invenzione, provocatorio e innovativo. Se con il primo, Fedra, il celebre autore abruzzese è in scena con altri attori, in Angelica torna ai suoi monologhi. Fedra si ispirava alle suggestioni delle telenovele e delle chiacchiere di paese, in Angelica l’autore si ispira al mondo della fiction televisiva per raccontare una versione degradata della vita. Questo spettacolo conclude il dittico di Cosentino detto “del presente”: L’asino albino era uno spettacolo sul tempo che passa, Angelica è un lavoro sulla morte. Non è previsto un seguito. Entrambi sono un tentativo di parlare del presente. A chi c’è. Come al solito non c’è storia. Ogni tentativo di abbozzarne una sfiora la retorica e scivola nel ridicolo. C’è semmai – come e più del solito – il gusto di smontare le storie. Ci sono dunque degli ingredienti, dei brandelli di dialoghi e situazioni abbozzate. Una troupe che sceglie di girare uno sceneggiato televisivo in una casa di un quartiere popolare romano; un’attrice – Angelica appunto – che continua a recitare la propria morte, fino allo sfinimento. Ciò che si ripete in teatro ci fa ridere. Perché è il passato che pretende di ritornare come niente fosse. Ci sono delle immagini – poche – che mi faccio carico di scuotere sul loro asse per ottenerne un alone di movimento: l’icona di un papa tremante che fende la folla giubilare sulla sua papamobile, il ricordo della statua della Madonna portata in processione nel giorno del venerdì santo a Chieti. È la dialettica sacro/ dissacrazione come le due facce di una stessa aspirazione. O il rovescio bifronte di un medesimo vuoto. Non c’è storia. Ma c’è una concessione al bisogno di tirare avanti. Una trama. Ed è quella dello sceneggiato ricostruito in scena senza ausili tecnologici, ma utilizzando la cornice vuota di ciò che fu un televisore, e parrucche e primi piani e piani interi e bambole e pezzi di oggetti e dettagli di corpi. Si tratta innanzitutto di mimare con la povertà di mezzi scenici la povertà di un linguaggio. Farsi doppio parodico del linguaggio standardizzato del racconto televisivo. Ma c’è anche altro. Pasolini scriveva che materia del cinema – dell’audiovisivo – è il pianosequenza come presente assoluto. È il regista che selezionando e tagliando e montando tra loro pezzi di presente dà loro un senso. Creando nessi. Facendone materia di narrazione, cioè storia. Dunque passato. Però mi chiedo: come può il presente raccontarsi a se stesso? Io tento di installarmi nei tagli del montaggio, di dilatare i nessi, creare gioco tra i giunti; voglio disincantare l’impostura ipnotica dei raccordi narrativi, far emergere ludicamente il nonsenso che fa da sfondo alla costruzione del senso. Aggiungeva Pasolini che come il montaggio dà senso al cinema, così la morte dà senso alla vita. Però mi chiedo: cos’è che dà un senso alla morte? Se non c’è storia dovrà esserci da ridere. È ciò che credo di avere imparato dal teatro popolare, dalla cultura dei subalterni. Di coloro che, ben prima di noi smarriti postmoderni, hanno dovuto imparare a vivere senza il sostegno di un passato né prospettive di futuro. È il senso profondo dell’intrattenimento. Perché va bene la denuncia e la memoria e la controinformazione e il mondo a capinculo. Ma innanzitutto esserci. Qui e ora. Comunque.